Cosa c’è davvero dietro i videogiochi woke?

Nonostante molti di voi siano già informati sull’argomento, col questo video / articolo vorrei rispondere a una domanda che mi viene posta spesso. Cosa c’è davvero dietro il fenomeno woke e il suo ingresso a gamba tesa nel mondo dei videogiochi? A 10 anni dal suo avvento nell’industria, i suoi effetti sono diventati evidenti e innegabili. E pur essendo un argomento abbastanza complesso, alla fine i dibattiti si riducono alle solite risse tra fanboy in stile console war. Noi contro voi. Buoni contro cattivi. Jedi contro Sith. E mi dispiace, ma se avete questa visione del mondo non state usando neanche il 10% del vostro cervello, come Giulio in Italiano Medio.

Premessa. Voi non mi conoscete e quindi dovrete prendermi in parola quando vi dico che io odio parlare di politica. Odio i politici. E odio gli estremismi. Condivido alcune idee con la destra e altre con la sinistra, ma non mi riconosco in alcuno schieramento politico. Leggo alcuni commenti che, tutti infervorati, mi danno del conservatore o dell’estremista di destra, senza neanche argomentare. E rido. Perché se per voi andare contro il woke e l’attivismo nei videogiochi significa essere di destra, non avete capito nulla. Per me è semplicemente una questione di buonsenso. Così come lo è sostenere i diritti umani in Medio Oriente, le unioni gay, l’aborto e il rispetto dell’ambiente. Non paragonatemi a gente come Asmongold e simili. Mi stanno sulle balle sia i democratici che i conservatori, specialmente quelli americani. Non mi lascio condizionare dalla propaganda e preferisco ragionare con la mia testa. Da sempre. Quindi se non siete d’accordo con me, cercate di spiegare perché senza etichette o tribalismi e sarò felice di rispondervi. Usiamo la logica e smettiamo di farci condizionare da certi dettami ideologici da quattro soldi. Siamo persone prima di tutto. Ok? Bene. Premessa finita.

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Ma veniamo al dunque, partendo da due concetti fondamentali per la comprensione del video: DEI e ESG. DEI sta per Diversity, Equity e Inclusion, ovvero diversità, equità e inclusione. ESG sta per Environmental, Social, Governance, riferito a temi ambientali, sociali, di governance. Entrambi sono nati intorno agli anni ’60-70, quando il movimento per i diritti civili si batteva contro segregazione e discriminazione razziale. In risposta alle pressioni politiche e sociali, molti governi e aziende, specialmente negli Stati Uniti, hanno introdotto diverse prassi per promuovere una maggiore rappresentanza e uguaglianza all’interno del mondo del lavoro. In seguito i concetti si sono ampliati per abbracciare anche questioni di genere, orientamento sessuale, disabilità, e altre forme di diversità. Chiaramente né DEI né ESG sono stati creati da un’unica entità, ma sono emersi con il supporto di organismi internazionali come l’ONU e la crescente adozione da parte di grandi investitori istituzionali. Entrambi i concetti rappresentavano un’evoluzione del modo in cui il mondo aziendale e finanziario cercava di adattarsi a nuove pressioni e aspettative riguardanti l’impatto sociale, la sostenibilità e la governance. E fin qui tutto bene.

Nei primi anni 2000, con il supporto delle Nazioni Unite, furono lanciati i Principi per l’Investimento Responsabile. Questi principi fornivano linee guida per gli investitori su come integrare i fattori ESG nelle loro strategie di investimento, promuovendo la responsabilità ambientale e sociale. Ciò portò all’adozione di un metro di valutazione, ovvero il rating ESG, poiché sempre più investitori cominciarono a cercare di quantificare l’impatto ambientale, sociale e di governance delle aziende. Le agenzie di rating ESG utilizzano criteri come le emissioni di CO2, le condizioni di lavoro e l’etica aziendale per assegnare un punteggio agli interessati. Punteggi che poi serviranno agli investitori per stabilire se un’azienda sia sostenibile a lungo termine, considerando che alcuni studi associno rating ESG alti a un miglior ritorno finanziario. La DEI viene vista come parte integrante dei fattori ESG. Infatti, un’azienda con una forza lavoro diversificata e una cultura inclusiva è vista come più resiliente, innovativa e meglio posizionata per affrontare sfide globali. Attenzione: punteggi ESG alti non equivalgono affatto a prodotti di maggior qualità, e anzi tali criteri non tengono conto del consumatore in alcun modo. Che sia chiaro.

E ora veniamo alla parte interessante. Le aziende che decidono di puntare su iniziative di Diversità, Equità e Inclusione (DEI) ricevono finanziamenti e sostegno da varie fonti, inclusi governi, organizzazioni no profit, investitori privati e fondi dedicati. Parliamo più nello specifico di fondi governativi e agevolazioni fiscali, iniziative di formazione, investimenti da parte di venture capital e così via. Ci sono poi aziende e fondi di investimento di rilevanza mondiale, come Goldman Sachs e State Street, che da decenni puntano in modo deciso sulle pratiche DEI legate all’ESG. Il più famoso è certamente BlackRock, con i suoi modestissimi 10 trilioni di dollari di asset in gestione. Il CEO di BlackRock, Larry Fink, ha sottolineato più volte che le aziende che non adottano pratiche sostenibili e inclusive avranno un declino delle loro performance finanziarie nel lungo termine. Questo ha portato BlackRock a fare diverse cosine. Ad esempio:

  • Integrare criteri di DEI nelle decisioni di investimento, favorendo aziende che dimostrano impegni concreti in termini di inclusione e diversità.
  • Spingere per trasparenza nelle pratiche di DEI nelle aziende in cui investe, richiedendo report e dati dettagliati sulle politiche adottate.
  • Votare contro i consigli di amministrazione delle aziende che non dimostrano un impegno sufficiente verso la diversità e l’inclusione, in particolare per quanto riguarda la presenza di donne e minoranze nei ruoli dirigenziali.
  • BlackRock ha anche creato fondi sostenibili e a impatto, orientati verso aziende che rispettano alti standard ESG e un forte impegno su DEI.

Ma allora scusate. BlackRock & co. sono i salvatori del mondo, mossi da altruismo e buon cuore? Ovviamente no. E sarebbe stupido pensarlo. Questi giganti finanziari hanno un obiettivo primario: massimizzare i profitti per i loro investitori, e lo fanno adattandosi alle dinamiche del mercato e alle richieste normative, politiche e sociali. Le aziende come BlackRock investono in pratiche DEI ed ESG per ridurre il rischio a lungo termine. Sostenere questi principi non è una questione di etica o morale, ma di gestione del rischio aziendale, che comprende sia l’aspetto reputazionale che quello di conformità a disposizioni istituzionali. Non è raro, poi, che investitori come BlackRock siano accusati di sfruttare il loro peso economico per ottenere influenza politica. Alcuni ex insider hanno più volte confermato che il supporto a certe cause, come il DEI o l’ESG, non abbia nulla a che vedere con l’idealismo e venga utilizzato, tra le altre cose, per creare relazioni più strette con i governi o i regolatori. Ma questo, ragazzi, non dovrebbe sorprendere nessuno. Il mondo gira da sempre intorno ai soldi e al potere.

Iniziate a capire il senso del discorso? Perché ora vedremo come tutto ciò ha influenzato il mondo dell’intrattenimento. Le pratiche woke e politicamente corrette nei media, inclusi videogiochi e film, sono strettamente collegate a iniziative di DEI e agli investimenti ESG. Difatti gli investitori come BlackRock favoriscono le aziende che dimostrano un impegno concreto verso pratiche di inclusione e diversità. Studi cinematografici e sviluppatori di videogiochi che integrano temi woke nei loro prodotti risultano più appetibili per tali investitori. Questo perché includere personaggi diversi (di genere, razza, orientamento sessuale, ecc.) è visto come un modo per rispondere agli obiettivi di equità sociale e inclusione, che rientrano nei parametri sociali degli investimenti ESG. Le aziende che dimostrano attenzione a questi temi ricevono un miglior rating ESG, rendendole più attraenti per investitori interessati all’impatto sociale positivo.

E questo vale anche per il cosiddetto marketing inclusivo, che si pensa possa attrarre nuovi segmenti di pubblico. Includere questi temi nei videogiochi o nei film è anche una strategia di marketing per tentare di costruire una base di fan più ampia. Anche se alla prova dei fatti e dati alla mano, sembra che stia iniziando a dare l’effetto opposto. Ma ne parleremo dopo. Altro elemento importante è la questione governance. Le aziende mediatiche sono sempre più sottoposte a valutazioni su come gestiscono il capitale umano e la loro cultura aziendale. Molti studi cinematografici hanno introdotto regole per aumentare la diversità nei cast e nei team di produzione, rispondendo così alle richieste degli investitori. Inoltre, adottando una linea editoriale più inclusiva, le aziende sperano di riuscire a evitare controversie, migliorando la loro immagine pubblica e quindi mantenendo il sostegno degli investitori orientati all’ESG.

Questi cari investitori vedono spesso nei media un potente strumento per creare precisi cambiamenti politico-culturali a lungo termine. Basti vedere in che modo vengano demonizzate e censurate certe posizioni ideologiche nei principali media, e come il messaggio di fondo in praticamente ogni produzione mediatica odierna sia sempre lo stesso. E il motivo non cambia: soldi. Film, videogiochi e serie TV che includono temi woke di diversità, equità e inclusione possono infatti accedere a finanziamenti specifici da parte di fondi o organizzazioni che sostengono la giustizia sociale, tipo Kapor Capital e Impact America Fund. Insomma, specie quando sei un’azienda quotata in borsa, non puoi più permetterti di ignorare DEI ed ESG.

Il punto è: cosa succede al contenuto finale? Perché sappiamo bene come la spinta verso l’inclusione abbia influenzato direttamente i contenuti dei giochi. Sempre più titoli includono protagonisti femminili, personaggi LGBT, e rappresentazioni di diverse etnie. Affrontano temi sociali rilevanti, come la discriminazione, l’equità e i diritti civili. Censurano o ritoccano pesantemente giochi del passato per paura di risultare offensivi e poco sensibili. Implementano politiche e sistemi per combattere il comportamento tossico e discriminatorio all’interno delle loro piattaforme multiplayer. E attenzione, non sto dicendo che siano tutti dei fattori negativi, anzi. Io sono il primo a volere un ambiente più accogliente nel mondo del gaming. Ma due cose risultano evidenti. Le aziende che puntano sul DEI lo fanno esclusivamente per ragioni economiche e con la metodologia sbagliata.

Infatti molto spesso nei videogame più “progressisti” queste rappresentazioni appaiono superficiali, prive di sviluppo narrativo o profondità. Il concetto del “tokenism”, ovvero la pratica di includere un personaggio appartenente a una minoranza solo per rispettare gli standard di diversità, è al centro di diverse critiche bipartisan. Questi personaggi spesso sono idealizzati o privi di difetti, come se non fossero soggetti alle stesse sfide, errori o complessità che caratterizzano i protagonisti “tradizionali”. Non contribuiscono in modo significativo alla trama, ma sembrano essere stati inseriti solo per aderire a requisiti di diversità. Le loro storie tendono ad essere prevedibili e spesso prive di conflitto autentico o crescita del personaggio, il che porta a una mancanza di profondità narrativa. Alcuni esempi possono essere Forspoken, Wolfenstein, Dishonored e God of War, dove vediamo donne di colore, superbe, forti e indipendenti che non commettono mai errori. Questi personaggi, che avrebbero il potenziale di aggiungere ricchezza alle storie, finiscono per sembrare stereotipi al contrario, creati più per evitare critiche che per raccontare storie autentiche o interessanti.

Si percepisce quindi che queste iniziative siano viste più come una opportunità di profitto e marketing che come un’autentica volontà di cambiamento sociale. Il focus è sull’apparenza, non sulla sostanza: le aziende inseriscono personaggi o temi DEI senza realmente esplorare le loro storie o il contesto sociale e culturale che dovrebbero rappresentare. E ovviamente il marketing enfatizza la diversità in modo quasi esclusivo, come se fosse l’elemento centrale dell’attrattiva del prodotto, invece che un aspetto integrato in una narrazione più complessa. Perché non c’è una narrazione più complessa.

Molti giocatori, io in primis, sono stanchi del nuovo conformismo dell’industria videoludica. Invece di raccontare storie profonde e coinvolgenti, come fa ad esempio Atlus, alcuni titoli sembrano sacrificare la qualità narrativa per aderire a queste norme politiche. E il fenomeno dell’anti-woke nasce proprio da questo. Non è che un giorno ci siamo alzati e siamo diventati tutti amanti del DVCE. Semplicemente vediamo in questi contenuti una scarsa qualità e una grande ipocrisia, soprattutto quando i personaggi vengono trattati come strumenti narrativi “politicamente corretti” piuttosto che come individui complessi. Questa disconnessione tra le aspettative del pubblico e le scelte creative imposte agli sviluppatori porta ai flop commerciali di recente memoria che tutti conosciamo, non solo nel mondo del gaming ma anche del cinema con Disney in testa, con gli investitori nel panico che ora vorrebbero addirittura cambiare nome alla DEI.

E io ho citato Atlus ma purtroppo il fenomeno ha investito anche l’Asia. Un esempio è Square Enix, con il suo dipartimento etico, che censura e ritocca i giochi per allinearsi ai cosiddetti standard globali. O Bandai Namco, che in una recente uscita ha annunciato di volersi focalizzare sul DEI nei propri titoli. Oppure Sony, con la presentazione di Hiroki Totoki dove viene illustrato agli investitori il piano di conformità ai criteri ESG. Questo perché molti fondi di investimento globali come appunto BlackRock, che ha già un’enorme presenza in Giappone e Cina, stanno promuovendo pratiche di inclusione e sostenibilità tra le aziende asiatiche. Sì, anche in Cina. Dovete sapere che colossi come Tencent e NetEase stanno adottando iniziative DEI, in parte a causa delle loro espansioni globali e delle collaborazioni con aziende occidentali. Tencent, in particolare, ha iniziato a investire in start-up che promuovono valori di diversità e sostenibilità, e ha politiche interne che cercano di favorire un ambiente di lavoro più inclusivo.

E anche qui, mi sta benissimo che si spinga su principi come il miglioramento delle condizioni lavorative per tutti. Ma mi sembra che la situazione sia un po’ sfuggita di mano. Specie quando le scelte di assunzione si basano su fattori legati all’identità (come etnia, genere o orientamento sessuale) piuttosto che sulla competenza o sull’esperienza. È un po’ il discorso delle quote rosa in politica, che io considero un sistema anti-meritocratico e degradante per le donne, trattate quasi con pietà come se gli servisse l’aiutino per essere elette a prescindere dal duro lavoro svolto. Più volte abbiamo sentito aziende del calibro di EA, Ubisoft e compagnia vantarsi di aver assunto minoranze e team variegati senza porre alcuna enfasi sull’effettiva competenza degli stessi. Esempio. Dani Lalonders, designer narrativa nello studio di EA Cliffhanger Games, che peraltro lavora allo sviluppo di un gioco su Black Panther, gestiva un team di 21 persone. Tutte rigorosamente nere, come lei. E spacciava il fatto come positivo. Voleva un ambiente “sicuro” e l’unico modo per crearlo era circondarsi di persone come lei. Vogliamo aggiungere altro? Non serve. Immaginiamo cosa sarebbe successo se fosse stata bianca.

E non è l’unica. Ci sono stati diversi casi in cui figure pubbliche o dipendenti in settori come il marketing, HR o sviluppo creativo sono stati accusati di portare ideologie divisive all’interno dell’azienda. Creano tensioni tra colleghi o con il pubblico attraverso affermazioni razziste o intolleranti. Prendiamo Amandla Stenberg, l’attrice protagonista di Star Wars Acolyte con il suo palese razzismo contro i bianchi, o Camerin Wild, il tizio di Sweet Baby Inc. che vuole “bruciare l’industria dei videogiochi dalle fondamenta”. In ultimo pure il community manager di Godot, che ha creato un disastro PR per l’azienda bloccando e insultando gli utenti. Non ci stupiamo se poi escono fuori dei prodotti che penzolano, quando il livello dei dipendenti è questo. Cioè, che tipo di design e storytelling vi aspettate da chi vi chiama nazisti perché non vi piace la censura? Il DEI, in teoria, dovrebbe contribuire a creare un ambiente di lavoro e prodotti più inclusivi e accessibili. Tuttavia, quando viene gestito in modo superficiale o forzato, può portare a problematiche significative, sia a livello di assunzioni che di qualità del prodotto. Le aziende devono trovare un modo per conciliare l’inclusività con l’eccellenza creativa e tecnica, altrimenti rischiano di alienare il loro pubblico e compromettere il loro successo sul mercato. Come già peraltro avviene.

E visto che ho citato Sweet Baby Inc, parliamo anche di loro. In breve, si tratta né più né meno di aziende di consulenza. Ne esistono parecchie, tra cui Weird Ghosts, Black Girl Gamers e Hit Detection. Il loro ruolo è quello di fornire supporto strategico alle grandi case di produzione, sia per quanto riguarda la creazione di contenuti che rispettino criteri di inclusività, sia per il miglioramento delle pratiche aziendali interne. Vi siete mai chiesti perché God of War Ragnarok, Suicide Squad, Gotham Knights, Spider Man 2, Alan Wake 2 o Assassin’s Creed Valhalla abbiano storie sottotono e personaggi blandi, con diversità e inclusione ficcate dentro a forza? Merito della loro “consulenza sulla narrazione inclusiva”, qualunque cosa essa sia. Oltre a questo si occupano anche di formazione del personale e policy etiche/comportamentali sul lavoro. Ma il vero motivo per cui stanno sul mercato è un altro. Queste aziende aiutano i clienti a conformarsi agli standard ESG e a sviluppare piani da presentare agli investitori come parte del loro impegno verso obiettivi DEI. Spesso guidano la creazione di progetti e iniziative specifiche che possono attrarre finanziamenti ESG, ad esempio promuovendo una maggiore inclusività nei team di sviluppo e via dicendo. Siamo sempre lì, è una questione di soldi. Anche perché le loro parcelle sono piuttosto salate, considerando l’entità dei fondi destinati all’ESG da aziende come Sony, stimati a circa 5% del fatturato annuo.

Quindi no, neanche loro lo fanno per ideologia o altruismo. Hanno di certo degli attivisti al loro interno ma ai piani alti si parla esclusivamente la lingua del dollarone. E la cosa che mi fa incazzare è vedere alcuni di voi battersi per conto di questi soggetti, a cui non frega una mazza delle cause che vi stanno a cuore. Vi usano, ragazzi. E ci mettono contro polarizzando le opinioni come fa comodo alla politica odierna, sia a destra che a sinistra. I primi fondi ESG nell’industria del gaming sono stati stanziati intorno al 2010. Sarà un caso che i criteri DEI abbiano iniziato a prendere piede giusto qualche anno dopo? Oppure pensate che i vari Bobby Kotick, Andrew Wilson e Strauss Zelnick si siano svegliati un bel giorno riscoprendosi filantropi e progressisti? La domanda è retorica. Come disse qualcuno “non si può cantare il nero della rabbia coi miliardi.” E l’unica importanza del sociale per questi individui è quella economica.

Tant’è che moltissime aziende e investitori, di fronte al crescente rigetto del pubblico, stanno correndo ai ripari. Casi come quelli di Bud Light, Gillette o Harley Davidson non sono passati inosservati. Interi reparti DEI sono stati smantellati in aziende del calibro di Microsoft, Warner, Netflix, Disney e così via. Un motivo c’è. E sono i cali di profitto. Se i fallimenti continuano, sarà inevitabile che i consigli di amministrazione delle aziende, spinti dagli azionisti, ridiscutano quanto pesantemente puntare su contenuti DEI. Già alcuni segnali indicano che i grandi studi stiano reindirizzando risorse verso produzioni meno “rischiose” o più allineate con i gusti tradizionali del pubblico, per evitare nuovi flop. Un esempio è Disney, che stando ad alcuni insider avrebbe chiesto agli sceneggiatori di Pixar di rendere Inside Out 2 “molto meno gay”. Alla faccia degli arcobaleni nel mese del pride. E state tranquilli che vale anche per l’industria del gaming. I flop milionari sono difficili da ignorare e gli esempi positivi alla Space Marine 2 stanno smuovendo le acque. Guarda caso i giochi meno concentrati su certe tematiche sono quelli che risultano qualitativamente superiori venendo apprezzati dal pubblico. Perché sempre più gente si rende conto che la DEI gestita in questo mondo faccia soltanto del male all’industria e a noi giocatori.

A tal proposito, vorrei citare il direttore di Moon Studios Thomas Mahler, autore della serie Ori e No Rest for the Wicked. Rispondendo alle domande di alcuni utenti su X, Mahler si è scagliato contro la DEI nel mondo dell’intrattenimento, definendo la prassi “perversa”. “Sono un artista, e preferirei dimettermi piuttosto che farmi dire da altri come creare la mia arte. Andrebbe contro i principi in cui credo.” “Il mio approccio allo storytelling si basa su un punto di vista umano e lascio che sia la storia stessa a guidarmi. Se ritengo opportuno e sensato inserire un personaggio gay all’interno della mia storia, lo faccio. Ma non renderei mai un personaggio gay solo perché qualcuno mi dice che va di moda o per evitare critiche.” Poi continua. “Fondamentalmente, l’arte non funziona così. Ognuno ha le proprie storie, basate su esperienze vissute nel corso della vita. Ciò che eleva davvero l’arte è spingerti a riflettere su chi sei e condividere quelle storie con altre persone che possano recepire il tuo messaggio ed empatizzare. Ori and the Blind Forest rifletteva in diversi modi ciò che provai vedendo mio padre morire di cancro quando avevo 10 anni e la gratitudine verso mia madre. Wisps, invece, è stato scritto quando in studio stavamo iniziando ad avere figli ed immaginando come sarebbe stato avere un bambino con disabilità. Ho scritto la prima bozza di No Rest for the Wicked molto tempo fa e anche quella nasce da esperienze piuttosto particolari.” E conclude. “Spero che il discorso sia chiaro per tutti. Ho dovuto imparare a caro prezzo cosa significa essere un artista e non permetterò mai a nessuno di portarmelo via.” Non credo ci sia altro da aggiungere.

Il videogioco dovrebbe essere una forma d’arte in grado di unire chiunque, a prescindere da razza, sesso, religione e ideologia. Ben vengano i giochi con tematiche sociopolitiche come Final Fantasy Tactics, Metal Gear Solid e Spec Ops The Line! Ma trascinarvi dentro l’attivismo (di destra o sinistra) non fa che creare conflitti e divisioni. Se non siete capaci di distinguere l’intrattenimento dalla vita reale, il problema è vostro e non di chi desidera solo giocare in pace. Chiedere censure e punizioni per chi non segue determinati canoni genera soltanto astio e antipatia verso le cause che sostenete, per quanto potenzialmente condivisibili. E vi rende equiparabili a ciò che dite di odiare. Seguendo questi mangiasoldi travestiti da santoni vi fate del male da soli. Vi fate portavoci della loro ipocrisia, mentre loro contano i milioni. Oggi riuscite a far ridurre le dimensioni del seno di Tifa (che vittoria sensazionale oh), domani sempre più gente prenderà in antipatia i vostri principi per partito preso. Pensate a problemi veri e agite per cambiarli nel mondo reale: vi sentirete meglio con voi stessi e gli altri. Basta contaminare l’escapismo e gli hobby, basta avvelenare l’arte con l’ideologia. Riportiamo i videogiochi ai fasti di un tempo e torniamo prima di tutto a divertirci.

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