La crisi dei videogiochi tripla A: fine di un’era?

Negli ultimi tempi il sentimento comune sull’industria del gaming è tutt’altro che positivo. Sempre più giocatori e sviluppatori si dichiarano scontenti della situazione attuale, specie per quanto concerne gli studi occidentali che si occupano di videogiochi tripla A. I dati parlano di una fase di stallo e gli ultimi flop commerciali non lasciano ben sperare, insieme alla montagna di licenziamenti che avviene ormai a cadenza regolare. E di chi è la colpa? Sicuramente non mia o vostra, anche se il peso ricade comunque sulle nostre spalle a suon di 80€ a gioco e 800€ a console. E nonostante gentaglia come il CEO di Ubisoft Ivano Gelsomino preferisca paracularsi additandoci come pretenziosi, si tratta solo di una punizione che il mercato dei videogiochi si è autoinflitta. Vediamo di capire come.

Anzitutto partiamo dalle cause principali di questa crisi mistica. La più impattante è di certo l’aumento vertiginoso dei costi di sviluppo. I budget per i videogiochi tripla A sono infatti aumentati significativamente, con alcune produzioni che superano i 200 milioni di dollari solo per lo sviluppo, a cui vanno aggiunti fino a 150 milioni di dollari per il marketing. Franchise come COD o GTA raggiungono budget combinati di oltre 500 milioni di dollari. Senza parlare dei casi eclatanti alla Concord che fanno storia a sé. Questa crescita nei costi rende sempre più difficile per i titoli tripla A recuperare le spese solo attraverso le vendite iniziali, dato che solo una piccola percentuale (circa il 17%) riesce a farlo al lancio. Ragion per cui vediamo e continueremo a vedere sempre meno esclusive.

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Altro elemento: ritardi, cancellazioni e flop commerciali. La pressione finanziaria e la crescente complessità dei giochi hanno portato molti sviluppatori e publisher a cancellare titoli in sviluppo o a ritardarne il lancio. Ubisoft, Microsoft e Sony hanno cancellato diversi progetti a causa di risultati finanziari insoddisfacenti o del cambiamento di priorità strategiche. Diverse IP sono state abbandonate a causa di risultati di vendita ritenuti non all’altezza, lasciandoci spesso l’amaro in bocca. Vi ricordate Infamous? Ok, scordatevelo nuovamente perché ha venduto solo 6 milioni. Troppo poco per i piani alti! Non si ragiona più come creativi ma come economisti, riducendo al minimo il rischio aziendale e tarpando le ali a progetti che avrebbero potuto prendere il volo. Salvo poi lanciare fieramente gli AAAA alla Skull and Bones.

Terzo. Il focus sul modello “live service” e microtransazioni per garantire un flusso continuo di profitti. Hanno seguito come dei mentecatti l’esempio dei servizi di streaming senza effettuare prima un’analisi contestuale e imparare dagli errori altrui. Nel tentativo di emulare piattaforme come Netflix, si sono fiondati sull’occasione a testa bassa scontrandosi con ridondanza dell’offerta e cannibalizzazione vicendevole. Il risultato è lo stesso: un mercato saturo dove solo pochi giochi riescono a dominare, mentre altri sono destinati a fallire. L’utente medio non ha alcun motivo per passare ad Hyperscape abbandonando un Apex Legends, dove ha accumulato migliaia di ore e speso in microtransazioni. O semplicemente non ha il tempo per farlo.

In ultimo, c’è il calo post-pandemia. Dopo il boom del covid, il settore ha visto una naturalissima flessione. Negli Stati Uniti, si stima che i ricavi complessivi siano scesi del 14,3% rispetto al picco del 2021. Dato tragico, se consideriamo anche l’aumento dei costi di sviluppo e delle aspettative di rendimento. Avrebbe potuto essere evitato? Probabilmente no, almeno non del tutto. Il boom pandemico ha creato una domanda artificiale e temporanea, difficile da sostenere a lungo termine. Alcuni fattori, come i problemi nella catena di fornitura, erano difficili da prevedere o da contrastare in tempo. Ma era scontato che la bolla si sarebbe sgonfiata. E forse, con un maggiore investimento in innovazione, nuove IP e modelli di business più sostenibili, il calo si sarebbe potuto quantomeno attenuare.

Come ho già detto prima, tra queste motivazioni la più pesante è di sicuro l’aumento dei costi di sviluppo. E anche questo racchiude al suo interno una serie di elementi da prendere in esame. Uno in particolare potrebbe un po’ pesarci sulla coscienza e riguarda laggggrafica. A me personalmente non frega nulla e anzi sono un accanito sostenitore del confortevole dettaglio medio su Steam Deck, delle pixel art e dello stile Nintendo. Ma non è così per tutti, e anzi mi cadono un po’ le palle quando sento youtuber e “recensori” lamentarsi di un comparto tecnico magari datato o non al top in titoli come Refantazio. Non parlo di ottimizzazione, eh, quella la pretendo anch’io. Ma volere a tutti i costi il fotorealismo e avvicinare così tanto i giochi ai film è stato un errore. Perché creare motori avanzati e ottenere la resa di un Alan Wake 2 costa tanto, troppo. Specie se devi sviluppare su catorci che promettono 4k e poi ti danno 720p. Implementazioni di ray tracing, fotogrammetria, motion capture e quant’altro richiedono enormi investimenti in termini di tempo e figure specializzate. In Red Dead Redemption 2 sono stati spesi circa 540 milioni di dollari, destinati in gran parte ad animazioni e dettagli visivi. E non sono bruscolini. Per questo ormai pure mia nonna usa Unreal Engine.

Ovviamente la spinta cinematica si porta dietro tutte le conseguenze del caso. Non basta più una manciata di nerdoni, ma servono centinaia di figure suddivise in vari dipartimenti: programmazione, design, scrittura narrativa, audio, arte, testing QA (Quality Assurance), marketing, ecc. Inutile dirvi che mantenere team così vasti ha costi enormi in termini di stipendi, gestione e supporto. Inoltre, gli studi spesso collaborano con team esterni o studi secondari in altre parti del mondo per accelerare lo sviluppo, aggiungendo ulteriori costi operativi. È il caso di CD Projekt RED, che peraltro alcuni insider danno in estrema difficoltà e impantanata in uno sviluppo travagliato per il loro prossimo titolo. Sembra che stiano spendendo milioni in outsourcing per mancanza di personale competente, ormai fuggito verso altri lidi come Warhorse Studios (quelli di Kingdom Come).

E sviluppare videogiochi tripla A alla Cyberpunk, che ha richiesto più di 7 anni, non aiuta affatto. Più lungo è il periodo di gestazione, maggiori sono i costi di manodopera, le spese per la tecnologia e l’infrastruttura, e i costi operativi generali. Tra l’altro, per rispettare le scadenze, molti studi sono costretti a ricorrere al “crunch“, cioè a un periodo di lavoro intensivo per terminare il progetto. Le conseguenze sono burnout e turnover tra i dipendenti, con l’aggiunta di costi per assunzioni e formazione di nuovi sviluppatori. Senza parlare poi di licenze e middleware, tipo Havok per la fisica e Wwise per l’audio, che comunque le aziende proprietarie non ti regalano né ti fanno lo sconto famiglia. E se si tratta di un live service, inseriamo nel mix anche i costi di server, realizzazione dei contenuti, aggiornamenti e supporto tecnico. Ah, dimenticavo il pizzo ai consulenti della mia fava tipo Sweet Baby Inc. e compagnia, insieme a tasse e distribuzione nel caso si vada sul retail.

Infine, non in ordine di peso, il marketing. Non rientra necessariamente nei costi di sviluppo ma è anch’esso uno dei motivi principali dell’aumento dei budget. Anzi, se parliamo di franchise particolarmente popolari nel mondo dei videogiochi tripla A, il marketing può costare quanto, o addirittura più, dello sviluppo stesso. Un esempio eclatante fu Modern Warfare 2, costato 50 milioni e ulteriori 150 per il solo marketing. O lo stesso Cyberpunk, titolo da 450 milioni di dollari la cui metà fu destinata alla promozione. E gli ultimi blockbuster non sono da meno. Chiaramente il problema è che più investi e più devi vendere per ottenere margini di profitto soddisfacenti. Perciò se spendi 400 milioni e poi vendi 1 milione di copie, ti conviene tornare a raccogliere banane. Ma non dovrebbe essere la normalità. E per fortuna non tutti la pensano così. Infatti negli ultimi tempi diverse voci all’interno dell’industria si sono scagliate contro questo sistema.

Una di esse è Saber Interactive, publisher americano salito recentemente alla ribalta grazie a Warhammer 40k Space Marine 2. In una recente intervista, il direttore creativo dell’azienda Tim Willits si è espresso in modo critico nei confronti del segmento dei videogiochi tripla A. Secondo lui, molte case di sviluppo sbagliano sovradimensionando i loro progetti e perdendo il focus sull’obiettivo primario, che dovrebbe essere il divertimento. Cercano di fare troppe cose insieme nella speranza di piacere a tutti. Secondo lui è più sensato puntare su meccaniche familiari ma ben eseguite, mantenendo i costi sotto controllo in modo intelligente. E Space Marine 2 ne è un esempio. Gioco che non ha richiesto budget da capogiro e ottenuto un notevole successo anche grazie al passaparola. Che dire se non chapeau!

Consideriamo anche che ormai le previsioni di vendita dei grandi publisher sono diventate deliranti sia per i videogiochi tripla A che per quelli meno costosi. Star Wars Outlaws si aspettava di vendere 8 milioni, poi abbassati a 5. Non ne ha piazzate neanche 2. Per rientrare nei costi, questi videogiochi tripla A hanno spesso bisogno di superare le 5 milioni di copie. Se vendi meno, è un flop. E non mi sembra che la gente sia entusiasta di spendere 80€ a gioco per esperienze che tutto sommato non giustificano un aumento di prezzo così elevato. Con i costi di sviluppo sempre in aumento, tra qualche tempo un’edizione standard digitale costerà quanto una collector’s edition fisica della old gen. E poi buona fortuna a vendere 10 milioni!

Io credo che si debba tornare un po’ alle origini. Puoi creare un best seller anche partendo semplicemente da un’idea interessante. Io personalmente sono un grande estimatore di SEGA e Atlus e considero i loro giochi una spanna sopra al resto. Non parliamo sicuramente di indie ma neanche di budget da 200 milioni. E poi ci sono tantissimi esempi di titoli minori che hanno incassato milioni investendo noccioline. Dead Cells, Hollow Knight, Hades, Rocket League, Vampire Survivors! E a proposito, non so se lo sapete ma Poncle, l’italianissimo creatore di Vampire Survivors, è diventato publisher. Una notizia di cui quasi nessuno ha parlato ma che mi riempie di ottimismo. Perché nel caso specifico l’editore non si limiterà a pubblicare i progetti ma a finanziarli da zero. L’etichetta garantirà risorse economiche, supporto per la localizzazione, quality assurance, gestione delle release e consigli di sviluppo a quei team indie capaci di realizzare videogiochi divertenti, rigiocabili e a buon mercato.
Basta solo avere delle idee valide e una chiara visione. Evitando porcate come cloni bullet heaven, IA, blockchain e monnezza F2P mobile. Signore e signori, il giga chad Luca Galante ha calato l’asso. È ora di mandare affanculo EA, Ubisoft, Sony e compagnia una volta per tutte. Supportiamo solo chi lo merita, chi rispetta giochi e giocatori. Sosteniamo una filosofia imprenditoriale puntata alla lungimiranza più che al soldo facile. E forse prima o poi ci sveglieremo dall’incubo che è diventata l’industria dei videogiochi odierna.

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