Di tanto in tanto capita di fermarsi e riflettere sul presente, di come avvenimenti in apparenza isolati possano unirsi sotto comuni denominatori e diventare sistemi perfettamente amalgamati con la trama della realtà di tutti i giorni.
Il sesto episodio della diciottesima stagione di South Park, serie dal rinomato spirito critico e satirico, ha messo in luce un fenomeno che, seguendo quanto detto sopra, sta lentamente assumendo una dimensione di pericolosa normalità all’interno dell’industria videoludica.
I pareri dello staff |
Naares Il mio rapporto con il freemium e con i DLC è praticamente inesistente. Non ho la minima intenzione di supportare un mercato che punta a spennarmi solo perché ritenuto ormai prassi. Sono disposto a pagare un extra se un contenuto viene sviluppato DOPO la release di un gioco, se questo offre un’esperienza ricca a un prezzo onesto. Sono rimasto piacevolmente colpito in tal senso da Nintendo, per l’ottimo lavoro svolto con Mario Kart 8. Mi sta bene un freemium come quello adottato da alcuni MMORPG (vedi Star Wars), qualcosa che offra una sorta di demo allargata, un modo per decidere se vogliamo investire o meno il nostro denaro. Ecco, questo ha senso. Il resto è pura follia.
Dreimar Ne ho fatto un principio. Mai avranno i miei euri. In generale è più una questione di maturità, nonostante una fetta di mercato sia costituita oramai da over 30, il grosso è rappresentato da giovani clienti che conoscono, e a quanto pare accettano, questi sistemi di vendita. Non gliene faccio una colpa, i soldi sono i loro, semplicemente stanno al gioco, imposto dai maggiori publisher che, per inciso, non sono diretti da nonnetti acidi avvizziti ma da quaranta/cinquantenni che i vidiogiochi li hanno visti nascere. La cosa triste è che questo fenomeno ha portato ad un vistoso abbassamento della qualità dei videogiochi, nessuno si prende rischi, i soggetti nuovi sono brutte copie dei franchise maggiori, che a loro volta propongono spesso aria fritta. Anges I free to play vogliono attirare la mandria di pecoroni, gli ignoranti videoludici, che a loro volta si definiscono gamer, in quanto smanettano sui loro costosissimi smartphone pensando di video giocare. Rifiutandosi di comprare videogiochi per console, ritenendo 60-70€ eccessivi, ma spendendo centinaia di euro al mese in micro transazioni per i loro free to play del cazzo. Mastelli DLC e giochi freemium rispondono a due precisi tipi di business. Se i primi mirano a fidelizzare il cliente, e a fargli spendere più soldi in un periodo di tempo che va oltre l’acquisto del singolo titolo originale, i secondi devono sviluppare una marea di utenti gratuiti dal quale estrarre anche una piccola percentuale di giocatori che spendono (lo stesso giochino dietro alle vendite per corrispondenza tramite cataloghi, tanto per intenderci). Sono tendenzialmente inorridito da tutto ciò, ma propongo una provocazione: dopo aver giocato e finito Left Behind, DLC per The Last of Us, posso davvero dire di essere contrario a tutti questi tipi di contributi? Come sempre, guardare la situazione sotto una luce solo bianca o solo nera non è una mossa furba, e allora bisogna pensare che alla fine si tratta di modelli economici, contenuti in un mercato, la cui domanda è formata da noi giocatori. A far crollare il castello di carte basterebbe che la si smettesse di acquistare DLC e contenuti per i freemium: è banale a dirsi, ma alla fine è pur sempre vero. E il commento di Anges vince, a parte tutto. |
E’ impossibile negare che i cosiddetti freemium, ovvero giochi gratuiti godibili al 100% solo tramite esborso di valuta, stiano rilasciando un influsso negativo sulla qualità generale del gaming odierno, così com’è arduo dissociare tale modello dal più popolare stratagemma commerciale dei DLC.
Persiste comunque una sostanziale differenza tra freemium e free to play: nel primo caso viene fornita una versione di prova da sbloccare interamente tramite moneta, nel secondo i giocatori hanno effettivamente accesso al gioco completo, seppur con funzioni aggiuntive riservate ai paganti.
Succede poi che alcuni free to play ingrandiscano i vantaggi conferiti agli utenti dal borsellino bucato e rendano l’esperienza di gioco lenta e frustrante per tutti coloro che, invece, scelgono di non spendere: ecco come nascono i pay to win.
Giusto o sbagliato che sia, il meccanismo macina un’impressionante mole di guadagno e trasmuta i videogiochi in qualcosa di molto simile ad una slot machine che risponde alla regola del “più spendi, più hai probabilità di vincere”.
Se però i f2p dalla morale discutibile, almeno nella maggior parte dei casi, rimangono confinati negli store di Apple, Google e Microsoft e solo raramente raggiungono il mercato hardcore, il business vincente fatto esplodere a regola d’arte dai grandi publisher sostituendo le ex-espansioni con i pacchetti di contenuti scaricabili sta divorando ogni singolo titolo, indie o tripla A, uscito di recente.
Sfidiamo l’utenza ad indicare un solo videogame moderno non soggetto alla dura legge dei DLC.
Che siano corposi o meno, che escano al day one o mesi dopo il lancio del prodotto base, che abbiano un buono o cattivo rapporto qualità/prezzo, che aggiungano modalità, oggetti, personaggi, missioni sviluppate successivamente o estrapolate con sapienza dal gioco finito per un extra cash grab, i DLC sono ormai una prassi e la loro presenza sul mercato è giustificata dai grandi profitti che apportano ai distributori.
Si potrà obiettare stabilendo l’ovvio, cioè affermando che i pacchetti scaricabili non sporchino l’esperienza complessiva e nessuno ci obblighi ad acquistarli; ma fino a quando potremo ignorarli?
Per rispondere a questa domanda basti osservare come, negli ultimi tempi, il numero di contenuti esclusivi ottenibili soltanto tramite preordine sia aumentato a dismisura.
Non solo, adesso i DLC sono addirittura stati scorporati dal titolo principale ed inseriti nei season pass, dividendo il gioco in stralci e moltiplicando inspiegabilmente la spesa per due (es. Call of Duty: Advanced Warfare, il cui S.P. costa ben 50€).
Ormai DLC e Season Pass vengono annunciati persino prima dell’uscita del videogame stesso e questo non può che rappresentare un ulteriore elemento di distacco e diffidenza per i giocatori old school come noi, abituati alla scuola di marketing oggi portata avanti da Nintendo e altri pochi ma che, purtroppo, ha i minuti contati.
I publisher, spesso e volentieri, sono capeggiati da chi di videogame non capisce un’acca e punta esclusivamente al massimo introito; la loro concezione ambivalente, per pubblico e prodotto, di limone da spremere fino all’ultima goccia è quanto mai azzeccata e verificabile direttamente sul campo.
E’ giunta l’era in cui ad esser venduti sono pezzi di puzzle e non puzzle completi?
Siamo davvero disposti a chinare il capo e acconsentire di pagar lo stesso gioco più e più volte?
Non abbiamo nulla in contrario alle espansioni prodotte al di fuori dei normali tempi di sviluppo grazie a cui il gioco base potrà beneficiare di una maggiore longevità ma siamo ben consapevoli che, parlando di colossi finanziari, la strada più facile è sempre quella meno onorevole.
Riuscirà il mondo del gaming, inquinato e corrotto dall’ingente afflusso di capitali, a risollevarsi e splendere di luce propria come alle origini?
Abbiamo già la risposta e risiede dentro il nostro portafogli.