La Cina dominerà il mondo del gaming

Mentre l’industria del videogioco occidentale va sempre più verso la crisi, a oriente si respira un’aria decisamente diversa. Negli ultimi anni, infatti, oltre al made in Japan e Corea, i giochi cinesi stanno vivendo un vero e proprio boom economico e reputazionale. Black Myth Wukong ha da poco segnato ufficialmente l’ingresso della Cina nel mondo dei tripla A, ma si tratta solo della punta di un iceberg colossale. La rincorsa parte da ben più lontano, e il bolide non accenna a fermarsi. Anzi, ci sono buone probabilità che la Cina ridefinisca il panorama globale dei videogiochi negli anni a venire. Vediamo come.

Ormai un po’ tutti conosciamo Tencent, NetEase e miHoYo per il loro successo nei mercati dei giochi mobile e free-to-play. Queste aziende presenziano ormai in modo fisso nell’industria da oltre un decennio e un motivo ci sarà. Rastrellano vagonate di sghei. Genshin Impact ha generato ad oggi la modica somma di 4,3 miliardi di dollari. Miliardi, non milioni. Fantasy Westward Journey di Netease ha toccato quota 8 miliardi di ricavi dal 2019. Honor of Kings di Tencent, uscito nel 2015, oltrepassa agevolmente i 12 miliardi. Sono cifre folli, persino per gli standard dei blockbuster occidentali.

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Ma non è tutto rose e fiori. Con la diffusione capillare degli smartphone e la crescita del numero di utenti, la competizione in Cina è diventata spietata. Il mercato viene dominato dai colossi e ai più piccoli vanno solo le briciole. Insomma, come nel caso dei live service in occidente, hanno raggiunto la saturazione del settore mobile. In più, oltre a dominare il mercato, questi colossi possiedono anche gran parte dell’infrastruttura per la distribuzione e la monetizzazione dei giochi mobile. Un esempio lampante è Tencent con il suo enorme ecosistema che integra giochi, social media, piattaforme di pagamento e altri servizi digitali ampiamente diffusi in Cina.

Come se non bastasse, il governo cinese ha imposto una serie di regolamentazioni severe sull’industria videoludica domestica. Intanto se vuoi pubblicare un gioco devi passare dall’Ente Nazionale per stampa e pubblicazioni. Il governo deve fornirti la licenza, ovvero l’approvazione per andare avanti. Come quando ti apri il chioschetto delle granite. E negli ultimi anni il numero di licenze concesse è parecchio diminuito. Da circa 2000 nel 2018 a meno di 500 nel 2022. Ciò ha portato le aziende a concentrare le risorse su un numero inferiore di titoli con un alto potenziale di successo e valori di produzione alti. Non dimentichiamo nemmeno che in Cina esistono sia restrizioni sul tempo di gioco per i minori che limiti alla generazione di ricavi dalle microtransazioni in titoli free-to-play. Del tipo che se hai meno di 17 anni puoi giocare solo 3 ore a settimana dopo esserti autenticato con scansione facciale e non puoi spendere più di 25€ al mese.

A seguito di tutta sta regolamentazione, gli sviluppatori hanno iniziato a guardarsi attorno e farsi due conti. Il mercato globale offre opportunità enormi, soprattutto per i giochi premium, con vendite più alte e margini di profitto migliori rispetto all’ormai saturo settore del freemium. E poi i costi per uno studio di sviluppo in Cina sono nettamente inferiori rispetto all’occidente. Ne consegue che sempre più sviluppatori, magari fuoriusciti da Tencent e Netease, siano incoraggiati a puntare all’estero con IP originali per PC e console. A dargli una mano ci pensano aziende come Microsoft e Sony, che hanno avviato programmi di supporto per gli studi cinesi con l’obiettivo di trovare nuovi giochi e potenziali successi da lanciare sul mercato. E un altro aiuto indiretto viene dall’uso smodato di outsourcing degli studi stranieri in Cina. Come pensate che abbiano acquisito il know-how su modellazione, motion capture, animazioni e così via? Non con i tutorial indiani su YouTube. Il discorso vale per ogni tipo di industria, dall’intrattenimento al manufatturiero.

Anche il governo cinese fornisce sostegno agli sviluppatori per espandersi a livello internazionale. Winnie considera il gaming come uno dei settori tecnologici di punta e incentiva le collaborazioni internazionali e la formazione, con laboratori di ricerca dedicati al gaming nelle università statali. Chiamalo scemo! Del resto i grandi investimenti in Riot, Epic, Ubisoft e tanti altri non sono casuali. L’obiettivo è sviluppare giochi “glocal”, cioè fondati su radici locali ma progettati per avere un appeal universale. È una strategia molto diversa rispetto a quella usata in passato, quando i giochi erano principalmente indirizzati a utenti cinesi, con tutte le evidenti barriere culturali del caso.

Non bisogna comunque sottovalutare la domanda interna, che negli ultimi 10 anni è cresciuta in modo significativo. Prima del 2014 le console erano bannate in Cina, costringendo gli sviluppatori a dedicarsi per forza di cose all’ambito mobile. Oggi la situazione è diversa. Si stima che il mercato console in Cina raggiungerà i 2 miliardi e mezzo di introiti entro il 2027. Già prima dell’uscita di Wukong, il 30-40% delle vendite della maggior parte dei videogame proveniva dalla Cina. Basti pensare all’enorme successo di titoli come Cyberpunk 2077, Elden Ring, Palworld e Needy Girl Overdose. È ormai risaputo che la Cina rappresenti costantemente una larga fetta delle vendite globali. E pur essendo in patria un mercato molto più piccolo rispetto a quello mobile, sta crescendo abbastanza da supportare un ecosistema di team doppia e tripla A emergenti. C’è il talento, c’è la visione artistica, quindi perché no?

E so cosa state pensando. I cinesi copiano. Chiaro, molte produzioni riprendono 1:1 altri titoli di successo, scadendo spesso nel plagio. Ma ricordiamoci che l’industria videoludica cinese è relativamente giovane rispetto a quella giapponese, americana o europea. Molti studi cinesi hanno iniziato sviluppando titoli ispirati a giochi di successo internazionali, e questo è un passaggio comune in molte industrie emergenti. Anche il Giappone, nei primi anni, si ispirò a giochi americani prima di trovare la sua identità creativa. E non mi sembra che oggi l’industria del gaming brilli per originalità, anzi. Ci si limita a seguire le mode senza arte né parte.

In ogni caso i creatori cinesi sono sempre stati fortemente influenzati dai giochi esteri. Il loro problema erano appunto le restrizioni governative e la mancanza di maturità in ambito tecnologico. Non è un semplice spam di giochi ma un lungo processo durato almeno un decennio. L’avvento di motori grafici avanzati, IA e situazioni commerciali favorevoli ha soltanto velocizzato il tutto. Chiaro, potrei avere qualcosa da ridire sul loro utilizzo smodato dell’odioso Unreal Engine 5 e la mole di problemi tecnici che si porta dietro. Ma ci si augura che il buon Timoteo Maiali, tra un processo e l’altro, possa metterci una pezza a fronte di un utilizzo sempre crescente.

Un altro punto che ci tengo a sottolineare è l’elemento culturale. Molti sviluppatori cinesi vedono questo aspetto come un’opportunità per creare giochi che siano unici e distintivi rispetto ai colleghi occidentali. Titoli come Black Myth: Wukong sono basati su storie e personaggi della mitologia cinese, offrendo esperienze che possono attirare sia i giocatori locali che quelli globali alla ricerca di qualcosa di nuovo e culturalmente diverso. Perché la vera diversità è questa, non la consulenza di 7 milioni per ficcare dentro le cicatrici chirurgiche.

E lo vediamo nell’ondata di titoli super interessanti tipo Phantom Blade Zero, Wuchang Fallen Feathers, Ballad of Antara e Where Winds Meet, permeati da uno stile riconoscibile ma caratteristico, con chiari riferimenti a cultura e mitologia cinese. La ragione è evidente. Questi sviluppatori pensano che presentare qualcosa di oscuro, misterioso ed esotico possa affascinare il pubblico globale. Ovviamente servono anche qualità e divertimento, sennò il castello crolla. Per dire, roba tipo il clone di Horizon è imbarazzante. Ma con titoli che funzionano a dovere, come appunto Wukong, tematiche simili sono a tutti gli effetti dei vantaggi. Si tratta di elementi poco familiari ai giocatori occidentali, in grado di portare una bella ventata d’aria fresca in un panorama ludico ormai stantìo, al di fuori dei soliti eccellenti studi nipponici.

Il motivo per cui molti cinesi conoscono la cultura pop globale sono proprio i videogiochi. Grazie ad essi, si è registrata un minimo di contaminazione positiva nel paese. Dubito fortemente che i giocatori cinesi fino a qualche decennio fa sapessero molto sui samurai, e non penso neanche che ne fossero particolarmente interessati. Ma titoli come Sekiro li hanno portati in auge rendendoli parte della cultura pop. E lo stesso vale anche per noi, da un certo punto di vista. Wukong ne è un esempio, con la sua ispirazione al viaggio in occidente di cui tantissima gente non aveva mai sentito parlare prima. E magari ora ci si è pure appassionata. Come dico spesso, il gaming è un’arte e l’arte deve servire ad arricchirci. Sia emotivamente che intellettualmente.

Il mercato occidentale è dominato da grandi publisher che privilegiano i profitti a breve termine rispetto alla qualità artistica. Gli sviluppatori asiatici, soprattutto quelli indipendenti o meno noti, riescono a mantenere un maggiore controllo creativo sui loro giochi, realizzando opere più autentiche e meno condizionate da logiche puramente commerciali. Inoltre, diverse produzioni occidentali si concentrano eccessivamente su inclusione, diversità e rappresentazioni forzate, a volte a scapito della qualità del gameplay o della narrativa. I giochi asiatici, al contrario, tendono a spippettarsi meno su certe questioni.

Sì, sono consapevole che Paesi come la Cina non siano i luoghi più democratici al mondo, anzi diciamo pure che sono la patria della censura. E io sono il primo che vi si scaglia contro in qualsiasi circostanza, a prescindere dalla persona e dagli schieramenti politici. Il punto è che la Cina censura i contenuti occidentali in patria ma non cerca di imporre i propri standard al resto del mondo dell’intrattenimento.

Adesso apro una piccola parentesi. Sapete cosa sta succedendo in Giappone? Diversi siti e negozi che ospitano contenuti per adulti stanno venendo presi di mira dai sistemi di pagamento internazionali con sede negli USA. Skeb, Niconico, DMM, DLSite, Fantia, Melonbooks e Manga Library Z sono stati costretti a ridimensionare il proprio giro d’affari perché VISA e Mastercard gli hanno chiuso i rubinetti da un giorno all’altro. Queste aziende si rifiutano di ricevere pagamenti legittimi su determinati prodotti per adulti, specialmente nell’industria giapponese di anime e manga. I motivi ufficiali, oltre alla classica paraculata di proteggere il brand, sono gli stessi che riecheggiano nella proposta delle Nazioni Unite del 29 Ottobre. Ovvero censurare o bandire tali contenuti dai media poiché inciterebbero alla violenza e alla discriminazione di genere.

Al dibattito è intervenuto anche il creatore di Nier Yoko Taro, affermando che se un’intera infrastruttura di distribuzione si arroga il diritto di regolare a piacimento l’editoria, nessuno gli vieta di controllare la libertà di parola in giro per il mondo. A suo dire la questione non metterebbe in pericolo solo l’industria creativa ma l’intero sistema democratico. E non ha torto. D’altronde il miglior modo per zittire qualcuno è minacciarlo di togliergli il pane di bocca.

E ultimamente abbiamo visto numerosi esempi di censura anche nel mondo dei videogiochi giapponese. Aziende come Sony, Square Enix, Capcom e Bandai mettono mano ai propri titoli per assicurarsi che rientrino nei canoni del politicamente corretto. Gli ultimi due esempi sono Konami e SEGA, entrambe rivoltesi all’azienda di consulenza americana Hit Detection per rimuovere o edulcorare alcuni aspetti di Silent Hill 2 e Sonic X Shadows Generations. Sta roba non va affatto bene. Perché l’occidente dovrebbe dire al Giappone come lavorare e imporgli i propri standard? Dall’alto di quale podio morale?

Non ci stupiamo poi se gente come Nagoshi, Itsuno e Kobayashi lasci SEGA e Capcom per andare con i publisher cinesi. Maggiori budget? Sì, ma anche maggiore libertà creativa e di sperimentazione. Perché vedete, la filosofia di molti sviluppatori asiatici mette al centro l’intrattenimento, la narrativa epica o la tradizione, senza dare troppo spazio a tematiche sociali polarizzanti. E questo spiega buona parte del successo di Wukong, Stellar Blade e compagnia. Così come spiegherà il successo di roba alla Showa American Story, che è riuscito a vendermi il gioco con un solo trailer. Se non lo avete ancora visto correte a guardarlo e mi ringrazierete. E già che ci siete cercate pure Ananta, per la scienza.

La Cina dunque ha tutte le carte in regola per diventare un player dominante nel mercato dei videogiochi occidentale, grazie al suo enorme mercato interno, le risorse economiche, la crescente capacità creativa e le strategie di espansione globale di colossi come Tencent e NetEase. Chiaro, ci sono sfide culturali, politiche e di competizione che gli sviluppatori cinesi dovranno affrontare. E le meccaniche gacha rimangono a mio avviso un cancro da estirpare. Ma una volta superati questi ostacoli, è certo che vedremo un’influenza di giochi cinesi sempre più forte nel panorama videoludico globale nei prossimi anni. E piaccia o meno, siamo stati proprio noi occidentali a spianargli la strada. Quindi diamoci pure una bella pacca sulla spalla.

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