I prezzi dei videogiochi non hanno senso

Negli ultimi anni il costo dei giochi ha subito un notevole aumento, con gli 80€ diventati ormai una prassi comune. Secondo alcune speculazioni recenti, titoli come GTA 6 potrebbero addirittura toccare i 100€. Il fenomeno degli incrementi nei prezzi dei videogiochi solleva diverse domande, non solo sull’influenza dell’inflazione e dei costi di sviluppo, ma anche sulle strategie di mercato adottate dai publisher e sull’effettiva giustificazione di tali aumenti. E vi faccio un piccolo spoiler: non sono per niente giustificati. Ma andiamo con ordine.

Un argomento spesso utilizzato per difendere l’aumento dei prezzi dei videogiochi è, appunto, l’inflazione. Il ragionamento ha un fondo di validità, giacché negli anni ‘90 i giochi per console costavano grosso modo quanto quelli odierni, in termini nominali. Quello che si ignora è il contesto economico completamente diverso. Oggi, rispetto ad allora, l’industria dei videogiochi è cresciuta in modo esponenziale, con un pubblico globale e un modello di distribuzione digitale che elimina molti dei costi tradizionali come produzione fisica, packaging e logistica. Sentiamo costantemente parlare di profitti record per Microsoft, Sony, Nintendo e compagnia, e dei bonus milionari dei vari CEO, mentre gli stipendi medi degli sviluppatori sono circa 2500 volte più bassi. E nonostante tutto, i prezzi continuano a salire.

Per questo e altri contenuti vi invitiamo a visitare il canale di approfondimento di Zeusexy.

Se andiamo indietro e tracciamo una cronistoria dei prezzi in Italia, noteremo un chiaro pattern. Negli anni ’80 e ’90 i giochi per NES, SNES e Sega Mega Drive costavano tra le 70.000 e 120.000 lire (circa 36-62 euro attuali senza calcolare l’inflazione). Questo perché le cartucce erano costose da produrre, e molte venivano importate dall’estero con tasse e dazi elevati. Ciò rendeva i giochi un prodotto di lusso, per l’epoca. Negli anni 2000, con l’arrivo di PS2, Xbox e GameCube, i prezzi si stabilizzarono attorno alle 120.000 lire per i titoli AAA. Il passaggio all’euro nel 2002 fece percepire un leggero aumento, anche se i prezzi si traducevano quasi direttamente da 100.000 lire a 50 euro. Intorno al 2010 i giochi AAA salirono a 60-70 euro, ma con l’aggiunta di DLC e microtransazioni. Quindi il costo reale per avere l’esperienza completa poteva spesso superare quello del gioco base. Con l’arrivo dell’attuale generazione di console, molti publisher hanno adottato lo standard dei 79,99 euro, specialmente i più avidi come Sony, EA e Take Two. Tra l’altro, le edizioni limitate o premium, che tempo fa si recuperavano con un centone, oggi superano anche i 200. E senza il disco dentro! Insomma, tra una cosa e l’altra il prezzo in euro di un titolo AAA nel 2025 è sensibilmente aumentato rispetto a 20 anni fa.

Ora, paragonare i videogiochi ad altri beni, come alimentari o carburanti, è abbastanza fuorviante. Parliamo di prodotti digitali con costi di produzione che non aumentano proporzionalmente con la quantità venduta. Al contrario dei beni fisici, non hanno costi variabili legati a materie prime, logistica e produzione che sono direttamente influenzati dall’inflazione. Poi è chiaro, l’inflazione può colpire anche i costi di sviluppo (ovvero stipendi, software, hardware), ma questi non incidono sul prezzo di ogni singola copia venduta allo stesso modo dei beni fisici. Un videogioco non è un pacco di pasta. E la crescita esponenziale nei profitti dell’industria videoludica non fa altro che dimostrarne la relativa immunità al fenomeno dell’inflazione.

Un altro argomento frequente per giustificare l’aumento dei prezzi nei videogiochi riguarda l’aumento dei budget di sviluppo. Siamo partiti dai 40 milioni di Final Fantasy IX agli sconvolgenti 900 per Genshin Impact. E sì, simili cifre sono ormai la norma nel mercato AAA globale. In compenso, budget di questa entità non si traducono sempre in capolavori e innovazioni epocali. E al di là della qualità del gioco, spesso i mega budget sono legati a scelte discutibili e mala gestione. Tipo campagne di marketing esagerate, attori strapagati e l’amatissima ggggrafica. Senza contare le aziende alla Ubisoft che assumono decine di migliaia di sviluppatori giusto per sport, riavviano i lavori 2-3 volte in stile Electronic Arts e si impuntano su fantomatici progetti cross-mediali alla Concord. Ah, dimenticavo i DRM, con Denuvo venduto alla modica cifra di 0,5$ per attivazione + 25.000$ al mese. E io pago! Cioè, concorderete con me che non è giusto che siano i consumatori a sborsare extra per queste inefficienze.

E invece di focalizzarsi sui rincari, mi soffermerei sui risparmi evidenti. Uno di essi è l’ammortamento dei costi tramite vendite globali e digitali, oggi preponderanti. Qualsiasi sviluppatore dotato di connessione a internet può raggiungere un pubblico molto più ampio rispetto al passato. La distribuzione digitale riduce enormemente i costi di produzione e distribuzione, specialmente per chi vende decine di milioni di copie come COD e FIFA. Anzi, capita che i giochi in versione digitale costino addirittura di più rispetto alle controparti fisiche, ormai in via di estinzione. Eppure, misteriosamente, i risparmi li vedono solo i CEO con stipendi a 9 cifre. Gli stessi che licenziano migliaia di dipendenti con schiocco di dita stile Thanos tagliando risorse a qualsiasi progetto non sia un live service fondato sullo shop. Fossero aumenti giustificati proporzionalmente da una qualità superiore! Se, magari. NBA 2K21 costa 10€ in più del predecessore. Perché? Beh… hmmm… abbiamo aumentato la qualità, dice il CEO di Take Two Strauss Zelnick. Come? Non si sa. Però ci sono microtransazioni e spot pubblicitari in game.

Prendiamo poi l’esempio di Dynasty Warriors Origins di Koei Smegmo, un titolo che come tutti i dannati musou utilizza risorse riciclate da capitoli precedenti e la stessa identica formula. Viene comunque venduto a 79,99€ su Steam. Because reasons. Allo stesso tempo, Kingdom Come Deliverance 2 viene proposto a 60€ nonostante un maggiore impegno in termini di innovazione e qualità complessiva. Allora Warhorse andrà in perdita? Ovviamente no. Marginerà soltanto un po’ meno di Koei sulla vendita della singola copia. Ma capite bene come i prezzi dei videogiochi siano spesso arbitrari e scollegati dal reale valore del prodotto o dai suoi effettivi costi di sviluppo.

L’industria del gaming è vittima di una sorta di corsa al rialzo, dove i publisher seguono la logica del “se lo fanno loro, perché non dovremmo farlo anche noi?”. La stessa logica che Nintendo ha utilizzato per proporci la sua versione low cost del pizzo per giocare online. Già, servizi online e royalties, ennesimi guadagni praticamente a costo zero per i produttori di console che poi frignano e ti vendono una remaster a prezzo pieno, anche su PC. E finché ci sono i gonzi che pagherebbero qualsiasi cifra senza fiatare, i publisher non cambieranno mai rotta. Anzi, continueranno ad alzare l’asticella dell’avarizia.

Il caso di PS5 Pro è un altro esempio di come l’industria stia testando i limiti della tolleranza dei consumatori. Intanto tiro l’amo, poi vediamo chi abbocca. Persino gli aumenti di prezzo costanti di processori e schede video su PC seguono la stessa ratio. E se, come si vocifera, GTA 6 dovesse davvero costare 100€, ci troveremmo di fronte a una trasformazione del gaming in un hobby elitario, accessibile solo a chi è disposto a sganciare i sacchi. Per tutto il resto dei pezzenti in paesi come India, Brasile e Turchia rimarranno i live service infarciti di macro-transazioni, battle pass e tante belle cose. Davvero un’allegra prospettiva.

E non è che gli aumenti oltre i 100€ non siano già avvenuti. Basti vedere tutte le tipologie di edizioni digitali con i bonus vendute a peso d’oro. L’ultimo esempio è Doom The Dark Ages su Steam, con i suoi 80€ per l’edizione base e 110€ per quella premium che consente di giocare in anticipo di 2 giorni rispetto alla data di uscita ufficiale. Siamo arrivati a questo. E il publisher è Microsoft, giusto una piccola startup americana che nel 2024 ha fatturato appena 255 miliardi di dollari. Se vogliono davvero più soldi aggratis, perché non permettere ai giocatori di pagare cifre personalizzate in stile Humble Bundle o Kickstarter? Parti da una base di 50-60€ e chi vuol donartene 2000€ è liberissimo di farlo. Ma non piazzarmi gli 80€ come standard per una versione digitale, fingendo di averne disperato bisogno. Perché a prescindere, di margini ne avrai a sufficienza.

E dire che l’industria ne avrebbe di strumenti per ridurre significativamente i costi di sviluppo. L’intelligenza artificiale, ad esempio, è in grado di automatizzare molte fasi del processo creativo, dalla generazione di asset alla texturizzazione. Anche il QA testing può essere reso più efficiente grazie all’IA, riducendo la necessità di grandi team di tester umani. Motivo per cui diversi publisher come EA, Activision e Capcom ci stanno già puntando da qualche anno per loro stessa ammissione. Poi ci sono i motori grafici come Unreal Engine o Unity, che offrono licenze relativamente economiche semplificando e velocizzando processi prima molto lunghi e laboriosi. O le nuove tecnologie di Nvidia tra cui G-Assist, ACE e così via.

Allo stesso modo, l’outsourcing in regioni come il Sud-est asiatico e l’Europa dell’Est viene usato regolarmente per abbattere i costi, e a farne le spese sono gli sviluppatori sfruttati e distrutti dal crunch. Esistono eccezioni alla Larian Studios ma purtroppo rimangono proprio quello, eccezioni. Larga parte dell’industria continua a cacare fuori titoli prodotti con lo stampino e di qualità sempre più scadente a prezzi esorbitanti. Per giunta mal ottimizzati e dai requisiti folli su PC. Perché non investono, o per lo meno non lo fanno nel modo giusto. I risparmi ottenuti non vengono trasferiti ai consumatori, ma utilizzati per finanziare campagne pubblicitarie sempre più imponenti o semplicemente per massimizzare i profitti. Per dire, Black Ops 6 costa 80€, ha una montagna di micro-transazioni e fa largo uso di IA sia per risparmiare sia sui designer che sui doppiatori. Un po’ triste.

Sapete quanto ha guadagnato GTA 5 nel suo ciclo vitale? 8,6 miliardi di dollari. A fronte di un budget di 256 milioni. Questo significa che ha fruttato più di 30 volte l’investimento iniziale. Parliamo di un titolo venduto a prezzo pieno il cui online è infarcito di micro-transazioni. Pensate che la situazione sarà molto diversa con GTA 6? Io credo di no, anzi probabilmente farà anche meglio nel corso delle prossime generazioni di console. E Take Two non ha alcun bisogno di alzare il prezzo. Se deciderà di farlo, sarà per aumentare i margini di profitto. Non perché rischiano di andare in bancarotta o si trovino in difficoltà paragonabili a quelle di Remedy con Alan Wake 2. Gli piacciono i soldi e basta. Hoyoverse ha quasi decuplicato i 900 milioni di budget di Genshin Impact, e si tratta di un titolo free to play. Quindi, di che stiamo a parlà?

Ridurre i costi superflui sarebbe la risposta più logica a una presunta stagnazione. Non te lo prescrive il medico di investire 700 milioni nel tuo prossimo gioco. Esistono una miriade di perle realizzate con due lire. Roba ben più divertente e complessa di Dragon Age Viola e Assassin’s Creed Rosso. Ma vaglielo a spiegare ai borsisti in giacca e cravatta che ormai infestano l’industria. Non capiscono l’errore. Dopo un flop milionario si limitano a licenziare, cancellare progetti e chiudere studi, per poi buttare altri 500 milioni nel prossimo titolo che salverà la baracca. Poi ci si chiede perché non esistano quasi più titoli originali in grado di prendersi dei rischi. Siamo al punto in cui piazzare 7 milioni di copie viene considerato un fallimento (vedasi Days Gone). E un’industria che ragiona così andrà probabilmente verso lo scatafascio in breve tempo.

E allora veniamo alle conclusioni. L’aumento dei prezzi dei videogiochi non è giustificato dall’inflazione o dai costi di sviluppo, ma è piuttosto il risultato di strategie di mercato che puntano a massimizzare i profitti a scapito dei consumatori. Con l’introduzione di tecnologie avanzate e pratiche di ottimizzazione dei costi, sarebbe possibile offrire giochi di alta qualità a prezzi più contenuti. Ma finché continueremo ad accettare gli 80€ imposti arbitrariamente, i publisher non avranno alcun incentivo a cambiare. Anzi, si sentiranno autorizzati ad aumentare sempre il tiro.

Se questa tendenza continuerà, il gaming rischia di diventare un hobby d’élite, alienando una parte significativa del pubblico e minacciando la sostenibilità a lungo termine dell’industria stessa. Ad oggi i titoli di maggior successo risalgono ad un range di 5-10 anni fa, con Fortnite e League of Legends in testa. Non credo sia un caso. E l’interesse sempre crescente per retrogaming e console portatili potrebbe ribilanciare un po’ la situazione, riportando il focus sulla bontà dell’esperienza e non sui valori di produzione. Almeno si spera. In ogni caso la mia domanda è: quanto siamo disposti a pagare per giocare, e dove tracciamo la linea di confine tra prezzi accettabili ed esagerazioni? A voi la parola.

Lascia una risposta

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *