Che casino il mondo dei videogiochi. Mai come oggi la figura del game director è assolutamente cruciale: tra flop, scandali, licenziamenti e bancarotte non c’è un minuto di pace per i publisher. C’è chi parla di un crollo inevitabile, fisiologico. E per certi versi, il successo commerciale in un mercato simile sembra quasi un terno al lotto. In molti ci provano, con budget di varia entità, ma in pochi sbancano. Non esistono scienze esatte, e spesso il tutto si riduce alla formula del posto giusto nel momento giusto. Realisticamente, ci sarebbe un mix complesso di fattori da prendere in considerazione. Ma l’estrema competitività del mercato richiede prima di tutto un posizionamento forte: l’identità del gioco, la capacità di distinguersi e un marketing efficace sono fondamentali per emergere in un panorama affollato.
La responsabilità del game director è cruciale, poiché questa figura è la principale guida creativa del progetto. Il game director stabilisce la visione complessiva del gioco, definendo cosa e come deve essere fatto. La sua visione influenza tutto, dal design delle meccaniche al tono narrativo e persino alle scelte estetiche. Se il director manca di chiarezza, o se la sua visione è in qualche modo carente, il prodotto finale ne sarà pesantemente intaccato.
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L’eccellenza di Super Mario Wonder proviene da precise scelte di design che dimostrano la maestria di Nintendo nel reinventare formule consolidate pur mantenendole accessibili e divertenti. Il director Shiro Mori ha saputo bilanciare tradizione e innovazione, garantendo che ogni elemento del gioco contribuisse a questa nuova filosofia. La trovata dei semi meraviglia aggiunge quel tocco di imprevedibilità che ribalta totalmente il level design in modo stimolante, mantenendo i giocatori curiosi e coinvolti. Anche Baldur’s Gate 3 dimostra che un gioco ben progettato, con una visione chiara e rispetto per il pubblico può sfondare in un mercato dominato da titoli tripla A con budget enormi. Il director Swen Vincke ha mostrato come passione, competenza e attenzione ai dettagli possano produrre capolavori in grado di ridefinire i generi di appartenenza. Al centro del design c’è l’idea che i giocatori debbano sentirsi padroni del proprio destino. Anche nei fallimenti, Baldur’s Gate 3 trova modi per mantenere la narrativa interessante e soddisfacente, rompendo la rigida struttura lineare tipica di molti RPG moderni. D’altra parte, invece, giochi come Concord e Suicide Squad mostrano come una mancanza di direzione chiara, unita a decisioni prese più per ragioni commerciali che creative, possa portare a prodotti che deludono le aspettative e floppano malamente.
Oggi, il game director deve anche considerare il contesto di mercato, come le tendenze del momento e le preferenze del pubblico, stando attento a non sacrificare l’integrità creativa. L’equilibrio tra assecondare la domanda e offrire qualcosa di nuovo è delicato, ma essenziale per il successo. Per questo, la responsabilità del game director va oltre il semplice sviluppo del gioco: il suo lavoro è la sintesi di arte, strategia e leadership, ed è determinante nel decretare il destino di un progetto. Lo sforzo complessivo del team è senz’altro importantissimo, ma avere alla guida gente del calibro di Kojima, Newell, Ueda e Sakurai fa indubbiamente la differenza.
Purtroppo però il problema dell’industria odierna è la relativa penuria di figure in grado di fornire autorialità e direzione a un progetto, almeno negli studi tripla A occidentali. E, mi spiace continuare a rigirare il dito nella piaga, ma l’esempio supremo è ancora Dragon Age Viola. Più precisamente, il suo director Corinne Busche. Dovete sapere che nelle scorse settimane è uscito un articolo su Inverse, intitolato “Corinne Busche è la sovrana dei GDR, conquistatrice di hater”. Già il titolo è tutto un programma. E grazie ad esso riusciamo non solo a comprendere come mai il gioco abbia floppato, ma anche il motivo per cui nessuno si fidi ormai più dei cosiddetti giornalisti videoludici. Ve lo riassumo e poi lo commentiamo.
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Corinne ci dice che “Non sfugge né a me né al team, quanto la serie di Dragon Age sia importante nella vita delle persone. Lavorando a questo gioco, ho provato un’enorme sensazione di responsabilità e necessità di essere fedeli e autentici a ciò che questi giochi significano per gli utenti.” L’autore prosegue affermando che Corinne sarebbe uno dei pochi director in grado di trasmettere autenticità nei videogiochi. Da The Sims a Dragon Age, il suo influsso ha sempre portato un profondo senso di umanità nei giochi, mettendo i personaggi al primo posto e non rinunciando mai alle sfumature e alla complessità dell’identità, delle relazioni e delle crisi esistenziali. Per questo sarebbe un leader nell’industria, capace di portare avanti Dragon Age e non solo alla ribalta con la sua estrema saggezza.
“Sono una donna trans e apertamente queer”, dice Busche. “Questo ha dato forma a tutto ciò che sono, ed è stata la fonte di molte gioie, difficoltà e prospettive. Per me, uno dei più grandi doni dell’essere trans è la quantità di introspezione che ti costringe a fare. Si passa molto tempo a esaminare profondamente chi si è e perché ciò sia importante”.
Per Busche, i giochi offrono uno specchio sulla propria identità, sulle proprie preferenze e sulle proprie scelte. Quando sviluppa un gioco, Busche dice di “pensare al ruolo che l’introspezione gioca sulle persone in generale, e al modo in cui ognuno di noi attraversa situazioni di crisi, epifanie e momenti riflessivi. Sono domande che si prestano a esperienze personalizzate come i giochi di ruolo, soprattutto se si considera il nostro più grande pilastro creativo: Sii chi vuoi essere”. Per Busche e il team “sembrava il momento giusto” per approfondire l’esplorazione dell’identità in Dragon Age, soprattutto con un personaggio come Rook che è plasmato dai sentimenti e dai pensieri del giocatore. Ma uno dei passi avanti più interessanti di Veilguard è la possibilità di condividere esperienze, anche amorose, con un cast irresistibile, definito come tra i più memorabili che BioWare abbia mai creato. Già.
Ultimamente lo studio sta affrontando una vera e propria campagna d’odio che ha messo Veilguard al centro di una guerra culturale sui social media, insieme a numerosi insulti agli sviluppatori e al review bombing su Metacritic. “Penso che dovremmo parlarne”, dice Busche. “È difficile. Sono cresciuta in un’epoca in cui ci si sentiva davvero lì per celebrare i giochi e vivere queste esperienze condivise, e questa spinta è ancora presente. Penso che tutto ciò sia il risultato di un clima molto polarizzato, e forse ingenuo. So che è difficile chiedersi: questo gioco fa per me? Il mio posto è qui? E i giochi sono migliori quando possiamo dire che sì, il tuo posto è qui”.
“Quando ci sono gruppi diversi, complessi e numerosi di persone che si riuniscono per creare qualcosa, ovviamente il gioco sarà un riflesso diretto di quel team”, continua Busche. “Penso che possiamo creare esperienze migliori e più autentiche quando ci leghiamo a ciò che rende noi sviluppatori, e voi fan. Quando possiamo legarci a quegli elementi che ci rendono distintamente umani, e questo significa differenze.” Secondo Busche, se non si tiene conto delle esperienze vissute dal team di sviluppo, si ottengono storie e mondi che sembrano meno vivi e realistici. Gli sviluppatori di videogiochi devono anche sentirsi sicuri in quello che fanno, il che significa, in ultima analisi, essere in grado di vedersi riflessi nel proprio lavoro.
Ok, adesso vomito tutte le mie obiezioni come un fiume in piena. Prima di tutto è importante comprendere il distacco tra propositi e risultato finale. Dragon Age Viola, per svariati motivi, non è fedele né autentico rispetto ai suoi predecessori. Essere “autentici” non significa solo aggiungere una presunta complessità ai personaggi, ma anche rispettare i pilastri fondamentali della serie: gameplay profondo, scelta e conseguenze reali, un mondo costruito coerentemente e narrativa che equilibra intrattenimento e introspezione. Dragon Age Viola non fa nulla di tutto questo. In Final Fantasy VI, la caratterizzazione di Terra come una figura alla ricerca della propria identità è intrecciata al tema della lotta tra tecnologia e magia, dando un senso di autenticità sia alla storia che al mondo. Non si piazza in tavola tirando casualmente fuori l’argomento “eeeeh… sono non binaria, non mi sento né umana né esper.”
Busche sembra aver confuso il concetto di “autenticità” con un’eccessiva focalizzazione su elementi personali e narrativi, trascurando altri aspetti fondamentali di un RPG. Il risultato è stato un mondo meno vivo, meccaniche di gioco poco convincenti e una parte ruolistica banale, scritta da cani e priva di scelte significative. Un vero game director dovrebbe concentrarsi sulla visione complessiva del gioco, bilanciando l’autenticità narrativa con la coerenza dell’esperienza ludica. Altrimenti alienerà chi si aspetta un’esperienza sfaccettata.
Andiamo avanti. Busche attribuisce la sua capacità creativa all’introspezione e all’identità da donna trans e queer. Ora, è vero che l’identità personale possa sicuramente aggiungere della creatività, ma questa deve essere integrata nel progetto senza che il gioco si trasformi in una piattaforma per l’auto-espressione o validazione del direttore. Per quello ci sono le biografie, o gli psicologi. Il gioco deve rimanere accessibile e rilevante per una vasta gamma di giocatori, non solo per chi condivide un’esperienza simile. Mai sentito parlare di simbolismo? In Nier: Automata, il tema dell’identità viene esplorato con gli androidi, rendendo la storia comprensibile e significativa per tutti, senza richiedere che il giocatore condivida il vissuto del creatore. Un vero game director non dovrebbe semplicemente utilizzare la propria esperienza personale nuda e cruda come ispirazione, ma tradurla in temi universali, in modo che chiunque possa sentirsi parte del mondo di gioco. Oppure rappresentarla nel migliore dei modi, come in That Dragon Cancer o Ori and the Blind Forest, e di certo non è il caso di Dragon Age Viola.
Poi. Il discorso sull’introspezione e la personalizzazione dell’identità, che a sua detta sono centrali in un GDR. Ok, in teoria sono anche d’accordo. Il concetto di “Sii chi vuoi essere” è fondamentale in un GDR, specie laddove ci siano biforcazioni narrative. Ma la personalizzazione non può limitarsi solo agli aspetti estetici come le cicatrici chirurgiche. Deve necessariamente includere scelte significative che influenzino il mondo di gioco. Perché nei panni di Rook non posso uccidere chi mi pare o comportarmi da stronzo ma devo per forza essere gentile con tutti? Non esistono scelte morali grigie, che possano spingermi a riflettere. In che modo questo genere di design può indirizzare all’introspezione? Sono fondamentalmente obbligato a comportarmi come vuoi tu. Non sono libero di esprimere la mia identità. Davvero Fallout, Arcanum, Baldur’s Gate e compagnia non hanno insegnato nulla su come gestire la libertà del giocatore in un GDR?
Ma vabbè. Veniamo alla ricezione del pubblico. Busche attribuisce il review bombing e le critiche a un clima polarizzato e ad un’incapacità dei giocatori di accettare un prodotto diverso. È vero che alcuni giocatori possono essere influenzati da dinamiche sociali e culturali, con i più idioti ed estremisti (e sono una piccola parte) che si scagliano in modo ingiustificabile contro gli sviluppatori. Naturalmente ignoriamo il fatto che oggigiorno siano gli sviluppatori stessi a insultare i giocatori chiamandoli bigotti, razzisti e quant’altro. Ma a prescindere, la risposta di Busche ignora le critiche legittime sulla qualità del gioco e sull’allontanamento dai pilastri fondamentali della serie. Hello Games ha accettato le critiche a testa bassa, lavorato duro per anni e oggi No Man’s Sky è finalmente il gioco che avrebbe dovuto essere fin dal lancio. Lo stesso dicasi di un Cyberpunk. È comodo bollare le critiche come chiacchere da hater e circondarsi di tossicità positiva. Un vero game director deve ascoltare ogni tipo di feedback e usarli per riflettere sui punti deboli del progetto, senza liquidarli come frutto di dinamiche sociali.
Infine, l’esperienza collettiva del team di sviluppo. Busche afferma che le esperienze personali del team siano fondamentali per creare storie vive e autentiche. Bene, l’esperienza personale del team può senz’altro arricchire il progetto fornendo prospettive e punti di vista differenti. Di contro, deve essere armonizzata in una visione coerente guidata dal direttore creativo. Un gioco non può diventare un mosaico disconnesso di esperienze individuali, o si rischia di produrre dei titoli alla Ubisoft, dove tra mancanza di direzione, tirocinanti nel pallone e outsourcing selvaggio il risultato finale è una poltiglia marrone fumante. Gente come Shigeru Miyamoto ha sempre integrato le proprie esperienze personali nel design, ma in modo che si adattassero a una visione chiara e universale del gioco. Il tutto nasce dall’osservazione del mondo reale e delle persone, dalla sua curiosità instancabile e dal desiderio di ricreare le emozioni e le lezioni della sua vita in esperienze ludiche che siano accessibili, gratificanti e indimenticabili. E sapergli dare coerenza tematica. Guidare il team verso una visione unificata, traducendo le esperienze personali in elementi che arricchiscano il gioco senza frammentarlo.
Director “saggi e illuminati” alla Corinne Busche potrebbero trarre importanti lezioni dall’osservazione di successi e fallimenti nell’industria, nonché dagli approcci di figure storiche che hanno segnato il medium videoludico. Prima di tutto, è fondamentale comprendere che la propria visione creativa deve integrarsi armoniosamente con le aspettative del pubblico e con ciò che rende una serie o un genere amato e riconoscibile. Questo non significa rinunciare all’innovazione, ma saper bilanciare il nuovo e il familiare. Pensare che il pubblico debba adattarsi senza offrire un punto di accesso chiaro è spesso un errore fatale.
Un’altra lezione chiave riguarda l’umiltà e l’importanza della collaborazione. Sebbene il director sia la guida creativa, il successo di un gioco è il risultato di uno sforzo collettivo. Grandi direttori come Miyamoto e Sakaguchi hanno spesso valorizzato il lavoro di team multidisciplinari, assicurandosi che ogni elemento contribuisse alla visione generale. Questo approccio evita che il progetto venga percepito come troppo concentrato su una prospettiva personale o su messaggi che non risuonano con il pubblico.
C’è poi il tema del focus sul giocatore. I director di maggior successo creano esperienze pensate per coinvolgere, sorprendere e appassionare chi gioca, mettendo al centro l’interattività e il divertimento. Ken Levine, con Bioshock, ha dimostrato come temi complessi possano essere esplorati senza sacrificare il coinvolgimento ludico. Al contrario, un eccessivo desiderio di esprimere idee personali o affrontare temi sociali senza inserirli organicamente nel gameplay porterà alle forzature di Dragon Age Viola. La chiave è che il messaggio emerga dall’esperienza stessa, non da una predica al giocatore.
Infine, è essenziale prendere il feedback non come un attacco personale, ma come una bussola. La critica, soprattutto quella costruttiva, è uno strumento prezioso per affinare la propria visione e comprendere meglio il pubblico. I director di successo imparano dai loro errori e si adattano, rimanendo fedeli a ciò che rende il medium unico: la capacità di creare mondi vivi, coinvolgenti e memorabili.
E finché queste lezioni non verranno comprese da chi dirige gli studi di sviluppo, ma anche da chi scrive articoli spazzatura come quello appena analizzato, i flop multimilionari continueranno a susseguirsi. Non siete ancora stanchi di bruciare soldi, miei cari publisher?