La prossima volta che qualcuno vi dirà che sviluppare videogiochi è diventato troppo costoso e che per rientrare nelle spese bisogna accollarsi decine di edizioni speciali, bonus preordine, season pass, micro transazioni, loot box e quant’altro, vi invitiamo a sbattere al muro quel qualcuno. Giusto qualche giorno fa siamo infatti venuti a conoscenza dell’esplosione economica di due aziende note per la loro povertà. Secondo un report di DFC Intelligence, il valore combinato di EA e Activision sarebbe cresciuto dal 2012 fino a circa 79 miliardi di dollari. Miliardi, non milioni.
L’industria si trova divisa in due grandi tronconi. Uno è quello dei giochi dal costo fisso e l’altro comprende tutti i game as a service. Questi ultimi sono i maggiori responsabili della crescita esponenziale, negli ultimi 6 anni, dei publisher menzionati. EA è passata da 4 a 33 miliardi, Activision da 10 a 60. Spiccioli, vero? Roba da non potersi neanche pagare una pizza e una sigaretta. Il disagio sociale qui si tocca con mano, signori.
Tra l’altro viene addirittura predetto un ulteriore aumento degli introiti negli anni a venire. Titoli non premium come Candy Crush, Bubble Witch e Lineage M macinano milioni su milioni andando quasi a raggiungere singolarmente le cifre di tutto il parco live service EA, al momento stimato in 2 miliardi annuali. E ci basta guardare Assassin’s Creed Odyssey per renderci conto di come la situazione per noi, da qui in avanti, potrà solo peggiorare. Paghi prezzo pieno, hai un’esperienza vuota. Se non spendi in micro transazioni sei un utente di serie B e ti diverti meno. Non fa una grinza.
Black Ops 4 di Activision ha registrato numeri record
Il modello live service, comunque, arriverà prima o poi al limite. Come avevamo già detto in passato, questi titoli online impegnano i giocatori per quantitativi considerevoli di tempo al giorno. Pensare che un utente, anche se dalla mano larga, possa spendere contemporaneamente in Destiny, Anthem, FIFA e Call of Duty è fantasia. Di solito ci si dedica a uno, massimo due giochi insieme, ed in alcuni casi è già una forzatura. Se poi calcoliamo che i per niente avidi publisher vogliono ancora spingere sulle uscite annuali, la contraddizione appare ovvia.
Se avete un occhio critico vi sarete accorti di come la qualità dei cosiddetti tripla A vada sempre più abbassandosi. A dispetto di nomi importanti come Activision, Electronic Arts o Ubisoft, i videogiochi a grosso budget perdono anima e valore per giustificare micro transazioni e tutta la merda a pagamento inserita negli shop. Abbiamo visto chiaramente che in certi casi gli sviluppatori hanno dovuto ri-bilanciarli una volta spariti gli acquisti in app. Non vengono più progettati per soddisfare e divertire ma per generare profitti continui mungendo i giocatori come vacche da latte.
E nel mondo capitalista quei 79 miliardi non bastano. Se non cresci, vieni considerato un fallito dagli azionisti. Da lì perdita di valore, inflazione, licenziamenti e problemi nello sviluppo. Ecco perché, per proseguire nella crescita, i publisher saranno costretti a spingere ancora di più sulla monetizzazione extra. È un gatto che si morde la coda, un circolo vizioso che rischia di distruggere i videogiochi così come li conosciamo.
Electronic Arts e Activision valgono, cumulativamente, quasi 80 miliardi di dollari
I prezzi, tra l’altro, sono aumentati eccome. Un tripla A non costa più 60-70€, non fatevi ingannare dal marketing. Con quei soldi ci comprate la versione base, che di completo non ha proprio nulla. Se volete l’esperienza definitiva dovete sganciare 100-120€ a seconda del prodotto, tra edizioni deluxe e season pass. Non si tratta più di investimenti per le compagnie ma di ricavi netti necessari per continuare a esistere evitando l’implosione. E la colpa indovinate chi ce l’ha. Certamente non il consumatore.
Sì beh, a parte quelle persone che spendono centinaia di euro in micro transazioni destinando tutto il resto del pubblico a vederle intrufolarsi persino nei single player offline. Badate bene: è una bassissima percentuale che ci condanna all’oblio. I giocatori che pagano sono la minoranza, le cosiddette balene su cui i publisher costruiscono la propria fortuna. Parliamo di minorenni, dipendenti dal gioco d’azzardo e non di certo del giocatore hardcore medio.
Ed essendo un pubblico così ristretto, è impossibile per aziende come Activision o Electronic Arts aspettarsi di poter crescere o comunque mantenere gli stessi introiti a lungo termine. Di conseguenza le micro transazioni diventano progressivamente più invasive e meno “opzionali”, allo scopo di allargare il bacino d’utenza e creare nuove balene. I giochi, resi lenti e grindosi per piazzare loot box, XP booster e quant’altro di furbesco si possa architettare, ne risentono parecchio. Esperienze potenzialmente straordinarie si accontentano della mediocrità giusto per spillare qualche euro in più.
Destiny 2 di Activision ha rischiato il flop, ma sembra essersi ripreso dopo l’ultima espansione a pagamento
Non dimentichiamo poi che la maggior parte dei publisher AAA evade le tasse o versa contributi irrisori. Activision, ad esempio, ha diverse sedi satellite in giro per il mondo che fungono da elastico fiscale. I videogiochi li producono in America, licenze e proprietà individuali le tengono in Olanda, Svizzera e Lussemburgo con tassazione drasticamente ridotta e in certi casi equivalente a zero. In pratica sfruttano cavilli legislativi per attuare pratiche altrimenti illegali. Nel 2016 Activision ha pagato circa il 2% di tasse sui 7 miliardi di introiti totali.
E se vi state chiedendo chi abbia approvato tali leggi, vi chiariamo subito il dubbio. Alexander Hent, direttore del dipartimento fiscale di Activision, è casualmente membro della Commissione Tasse alla Camera di Commercio americana in Olanda. Coincidenze, sì sì. Lobbying e conflitto di interessi, questi sconosciuti. A confronto persino noi italiani siamo dei santarellini. Se vi fate una ricerca veloce sui paradisi fiscali scoprirete che milioni di compagnie americane, non solo Activision, evadono in scioltezza usando metodi simili. Però ehi, non riescono a mantenere i server in un multiplayer.
Sapete a quanto ammonta lo stipendio annuale di Andrew Mr. Robot Wilson, CEO di Electronic Arts? A 35 milioni di dollari. Bobby Kotick di Activision? 29 milioni. Karl Slatoff di Take Two? 20 milioni. Potremmo andare avanti all’infinito ma vi risparmiamo le bestemmie. La cosa simpatica è che questi signori licenziano e chiudono studi a ritmi impressionanti. Non solo, ma come dimostrato nelle ultime settimane costringono i dipendenti a lavorare fino a 100 ore settimanali offrendogli in cambio qualche spicciolo per gli straordinari, vantandosene pure. Lontani sono i tempi di Satoru Iwata che si tagliava lo stipendio. Lontani e sbiaditi, purtroppo.
Perfino i single player si riempiono di micro transazioni
Alla luce di quanto detto finora, sareste ancora capaci di giustificare DLC, micro transazioni e tutto il resto? Se sì, di coraggio ne avete da vendere. 60 miliardi di dollari in valore, 7 in utili e poi esce qualcosa come Destiny 2, dove paghi anche l’aria che respiri. Questo modello non è sostenibile né corretto per nessuno all’infuori degli stronzi in giacca e cravatta che si rotolano nella grana come zio paperone. Guarda caso in compagnie corrette come CD Projekt RED non hanno bisogno di ricorrere a certi mezzucci per generare profitti annuali enormi. La differenza sta solo nell’etica professionale e nel rispetto del consumatore.
E allora ha senso continuare a supportare degli sporchi evasori secondo cui i videogiochi non hanno un’anima (usando le parole del CEO di Ubisoft) e il loro unico scopo è svuotarvi la carta di credito? Siamo davvero disposti ad accettare lo status quo e vedere il nostro hobby preferito perdere ogni traccia di onestà intellettuale e creatività a causa dell’avarizia dei publisher? Ma soprattutto, vogliamo continuare a farci prendere per il culo in modo così palese?
Fatevi queste domande la prossima volta che vi hyperanno per l’ultimo tripla A del momento.