I videogame stanno diventando sempre più simili ai film? Ovvero la domanda che ogni giocatore di vecchia data si è posto almeno una volta nell’ultimo decennio. Del resto è una verità innegabile, che si manifesta con sempre maggiore frequenza. Con il passare del tempo la barriera che separa film e videogame si è di molto assottigliata. Negli anni abbiamo visto crescere la mole di avventure interattive visivamente spettacolari, anche a costo di mettere in secondo piano il gameplay.
Eppure, gli esponenti della “hollywoodizzazione” dei videogame si trovano in una posizione controversa. Da una parte ricevono acclamazioni a furor di popolo, scatenano hype e vendono uno sfacelo; dall’altra causano accesi dibattiti tra i giocatori più puristi e navigati. Parliamo in particolare della grossa porzione di tripla A che punta alla spettacolarizzazione a scapito di meccaniche e sistemi di gioco.
Videogame e Film: i casi di Ryse e The Order
Analizziamo la questione partendo da due videogame che, in un modo o nell’altro, si sono delineati come paradigma della generazione di PS3 e Xbox One, che partì decisamente con il piede sbagliato: Ryse: Son of Rome e The Order: 1886.
Il primo, pur potendo contare su un impatto visivo impressionante, basava le proprie meccaniche su combattimenti basilari e ripetitivi, conditi oltretutto da fastidiosi quick time event. Si trattava di scontri spettacolari che cercavano di nascondere una narrativa scialba e una struttura lineare.
Ad onor del vero bisogna ammettere che il lavoro di Crytek ha ricevuto un trattamento ingiusto dalla critica, dividendo il pubblico in accaniti blind hater e utenti mediamente soddisfatti. Risulta comunque evidente gli sviluppatori volessero concentrarsi quasi soltanto sull’aspetto esteriore della produzione. Forse volevano mostrare la potenza della console di Xbox 360, scelta comprensibile, ma che ha vanificato buona parte delle potenzialità dell’opera.
Con The Order, invece, abbiamo assistito a diverse sperimentazioni, nessuna relativa all’ambito del gameplay.
Dopo uno sviluppo durato ben 5 anni, ci siamo ritrovati un mix malriuscito tra videogame e film. Mancavano scelte oculate di game design, ed anche in questo caso sembrava si volessero mostrare i muscoli a PS4.
Un terzo delle 6 ore di gioco è occupato da filmati, un altro da lunghe camminate ed ispezioni di oggetti. Il gameplay effettivo non va oltre la mediocrità: è un banale third person shooter a corridoi, infarcito di QTE e privo di innovazione. In poche parole, un film interattivo di bassa lega (forse più un prequel) venduto a 70€.
E’ questo che dobbiamo aspettarci dal mercato dei videogame tripla A? Un’esagerata esaltazione della potenza grafica? La convinzione che i giochi debbano perdere la loro identità e trasformarsi in lungometraggi sovrapprezzati?
Se sì, noi decidiamo di rimanere antiquati abbracciando l’eterna filosofia Nintendo.
Videogame e Film: la superiorità del gioco
Crediamo sia assurdo sostenere una (con)fusione tra due media così differenti tra loro.
Un avvicinamento è legittimo e gli esempi di trame dall’enorme spessore (Bioshock, Final Fantasy VI, Grim Fandango, Torment) non mancano di certo. Ciò che disturba è invece questa sudditanza psicologica nei confronti del cinema.
Sta di fatto che, a nostro parere, i videogame rappresentano un media di gran lunga più completo dei film, godendo dell’interattività che nessun colossal potrà mai avere. La nostra visione vorrebbe che si desse priorità all’elemento gioco anziché al video. Gli sviluppatori dovrebbero solo stare più attenti alla gestione delle sceneggiature, in accordo con la piattaforma e il pubblico.
Gli esempi di narrativa ambientale o metanarrativa contenuti nei Souls come in Dear Esther, ad esempio, sono indicatori di una incredibile potenzialità.
Interessante anche l’impostazione data da Telltale, che ha unito il classico sistema punta e clicca ad una tecnica registica scorrevole e condizionata dalle scelte dell’utente. Utilissima è la collaborazione tra sviluppatori e gli autori delle opere originali, che garantisce il rispetto la lore. Non mancano tuttavia i difetti, come il ruolo molto marginale delle nostre scelte sul finale del gioco, che sembra sempre predefinito. Tra l’altro, il gameplay risulta fin troppo lineare e guidato.
E come non citare David Cage e i Quantic Dream, autori di vere e proprie perle meta-ludiche come Heavy Rain, Indigo Prophecy, Beyond: Two Souls e Detroit: Become Human. Cage ha sempre difeso l’unicità del videogame in quanto forma d’arte, in grado sia di proporre nuove meccaniche quanto di emozionare gli spettatori.
I suddetti titoli, grazie a regie e sceneggiature impeccabili, sfondano la barriera che separa il videogame dal film e si elevano al di sopra di essi. Si dimostra la potenza non solo espressiva del videogame, in grado di far passare azione e strategia in secondo piano, così voluto dallo stesso Cage che, ricordiamo, aveva definito il game over un fallimento più per il designer che per l’utente.
Eppure si procede verso una direzione distorta, con politiche dettate dai dati di vendita che costringono i videogame ad essere semplici corridoi a prova di stupido. Tutto deve essere indicato a schermo, non esistono misteri né profondità narrativa o psicologica. Il marketing, infatti, si è evoluto seguendo questo trend.
Specialmente a partire dall’era PS4/Xbox One, l’industria partorisce trailer quasi cinematografici e spesso pieni di pubblicità ingannevole. In genere, ancor prima di chiudersi con la data d’uscita, lasciano campeggiare in primissimo piano l’immancabile “Preordina subito per avere accesso a questo bonus a caso“. E tutto senza necessità di mostrare l’effettivo gameplay.
Quindi sì, in questo senso una parte dei videogame odierni è addirittura peggiore dei film più banali e commerciali che il mercato possa offrire.
Sembra che si stia perdendo il senso stesso del giocare in favore di inutili discussioni all’ultimo sangue tra fanboy di una determinata piattaforma che si azzuffano come piccioni intorno a briciole di pane quali la grafica, la risoluzione, il framerate e l’hardware.
Dove sono finiti i bei tempi in cui a far da padrona era la profondità dell’esperienza di gioco? Vogliamo davvero che i futuri titoli di punta siano simili a The Order e Ryse?
Ci rimettiamo al buon senso dei giocatori più esperti e di chiunque apprezzi la semplice genialità e il divertimento in ogni sua forma, sia essa 32 bit o Unreal Engine.
Diffidate di chi vuol colpirvi mostrando nient’altro che bellezza e realismo: puntate alla sostanza.
Personalmente identifico la categoria “avventura interattiva” come una forma nuova di intrattenimento. Se quello che mi si offre è un prodotto dal prezzo budget e dalla sceneggiatura eccellente (vedi The Wolf Among Us) non ho nulla in contrario.
Il problema sorge quando devo pagare 70 euro per esperimenti privi di spina dorsale come The Order, sfoggio di costosissima tecnica, sì, ma del tutto fine a se stessa.
In Heavy Rain il comparto tecnico allora eccellente è stato accompagnato da una sceneggiatura come minimo ottima, e da un comparto ludico che – seppur ridotto – ha saputo contare su un buon livello di rigiocabilità e coinvolgimento. E parliamo di un titolo costato 30 milioni, non esattamente un tripla A a la Destiny.
The Wolf Among Us e The Walking Dead mi offrono 2 ore di intrattenimento a 5 euro, che francamente sono ben lieto di spendere. Lo sperimentalismo non è mai un male e, fortunatamente, la tiepida accoglienza di prodotti poco riusciti come lo stesso The Order dovrebbero portare le case di produzione a cercare di affinare il tiro. L’unica reale preoccupazione piuttosto è che il marketing selvaggio possa in qualche modo cercare di sopperire alle mancanze di un titolo, convincendoci prima del lancio di avere a che fare con un giocone quando la realtà è ben diversa.
Sono daccordo sulle maggiori potenzialità del media “videogioco” e mi stupisco di come produttori e giocatori, cadano ancora nella tentazione di imitare, più che omaggiare, il cinema. Già negli anni novanta furono fatti degli asperimenti, successivamente all’avvento del cdrom, sia nei PC che nelle console da gioco ( come dimenticare il 3DO…) con tanto di partecipazione di alcuni registi e attori più o meno famosi. Ma a differenza di adesso, allora erano pubblicizzati come “film interattivi”. Ora invece ci propinano conferenze stampa, ci affogano di dichiarazioni discordanti, ci scatenano contro la “fan base” sui social media, distogliendo così l’attenzione dal fatto in se: i videogiochi così concepiti sono divertenti? Intrattengono in modo soddisfacente? Hanno ragione di esistere e poter essere considerati videogiochi o andrebbero trattati a parte, per quello che sono: dei filmetti in CG? Per la maggior parte di queste domande la risposta è “Si”. Riguardo all’ultima, sarà ovviamente il mercato a decidere. Se è vero che la storia va avanti ciclicamente, anche questo trend ternimerà spontaneamente, quando il “gioco” non varrà più la candela (proprio come venti anni fa). Spero che questa volta i publisher che speculano su questi fenomeni commerciali, non si spingano troppo oltre come in passato, portando al disfacimento alcune promettenti realtà del settore, cosa che sarebbe negativa per tutti.